Lost In Brera® NFT


State per entrare in un nuovo viaggio editoriale grazie alla tecnologia blockchain. Se siete arrivati a questo punto vuol dire che avete ricevuto la proprietà della illustrazione di Alessandro Gianpaoletti sul vostro Wallet e avete sbloccato il contenuto nascosto nel vostro NFT, che ne certifica la proprietà della illustrazione, con l’incipit del racconto. Da questo punto comincia un viaggio insieme, che ci porterà alla scoperta del Metaverso del progetto e della mostra virtuale, con Acca Accademia. Buona lettura e buon viaggio!

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VERSIONE ITALIANA: << Hurry up Giovanni, forza Maria! State in fila e fate silenzio…- disse la voce – …l’Accademia delle Belle Arti di Brera, più nota come Accademia di Brera, è un ateneo pubblico fondato nel 1776 dall’Imperatrice d’Austria Maria Teresa con lo scopo di sottrarre l’insegnamento delle belle arti ad artigiani e artisti privati e per sottoporlo alla pubblica sorveglianza. L’imperatrice – continuò – affidò il progetto all’architetto Giuseppe Piermarini, che ottenne, nello stesso anno, la prima cattedra di Architettura… >>


Le parole della mia insegnante mi arrivavano confuse e
lontane, come venissero da un altro mondo morbido e
ovattato, nonostante il suo tono fosse forte e deciso e si
sforzasse di scandire con precisione tutte le parole, per
evitare di fare errori nella lingua italiana, data la sua origine
anglosassone che ne influenzava in modo inequivocabile la
pronuncia. Una cosa che per il suo carattere rigoroso, le
doveva apparire in qualche modo intollerabile.


Non so perché, ma quel mattino quando varcammo l’entrata
di quel cortile con la classe, mi sentivo distratto, rapito dalla
grandiosità di quel palazzo, dalla sua austera maestosità
che mi incuteva una forma di rispetto e nello stesso tempo
una sensazione di insolita curiosità. Mi conferiva una
sensazione di leggero torpore, come in un sogno lieve che
mi confondeva i sensi, la vista perfino e le percezioni.
Immaginavo monaci e ufficiali, cavalli e cavalieri che si
aggiravano per quel cortile, ne percepivo le voci ed i rumori
che si sommavano scomposti a quelli della mia insegnante
e dei miei compagni.


<< Stupido. Ti ho detto di lasciarmi stare. >> Gridò stizzita
Joanne, la bambina di origine cinese quando uno dei nostri
compagni le tirò i capelli per dispetto. Credo in realtà lo
facesse perché le piaceva. Le piacevano quei capelli neri
come la notte e lunghi e lisci che le arrivavano fino quasi
alla cintura.


<< Basta bambini. >> Disse l’insegnante più per dovere che
per convinzione, mentre riprendeva la sua lezione con il
tono antipatico di una cantilena. Fu in uno dei tanti corridoi
che attraversammo nella nostra visita, antichi, con quelle
volte alte illuminate da una strana luminosità di colore verde
che si mischiava ai colori della luce che proveniva
dall’esterno che mi parve in qualche modo magica, che mi
fermai un attimo staccandomi dal gruppo, per tirar fuori dalla
tasca un pezzo di una piccola merenda che ci avevano dato
sul pulmino della scuola e che doveva servire per la
giornata. Tutte quelle emozioni credo, mi avevano fatto
venire un pò di fame.


Fu allora che vidi quella strana ragazza entrare di soppiatto
in quella grande porta di legno, che conduceva non so dove.
Mi colpirono i suoi vestiti, come fatti di una foggia antica e
ricercata; credo potesse essere di seta o tulle – ho sentito
mia nonna dire così una volta -, un pò come quella di cui
sono fatti i vestiti che indossano le spose o le ballerine forse
e di colore giallo tenue, ma che sembrava variare intensità
con la luce. Il vestito, incurante della fretta della sua
proprietaria, era rimasto incastrato per un attimo in una
difformità del legno nella porta, ed un piccolo lembo di stoffa
si era strappato quando la ragazza per la foga, doveva aver
tirato con forza per entrare.


Non so ancor oggi, quale istinto mi spinse o quale vocina
interiore mi invitò a seguirla, ma fatto sta che la seguii.
Lo feci noncurante delle regole e delle avvertenze che la
mia maestra ci aveva impartito fin dalla settimana prima
nella lezione di preparazione alla visita all’Accademia e di
tutte le raccomandazioni che, di rito, ricevemmo
singolarmente e in gruppo.
Lo feci comunque, lo riconosco, al di là di ogni ragionevole
buon senso.


Mi fermai per un attimo a cogliere quel piccolo lembo di
stoffa che aveva attirato la mia curiosità e acceso la mia
fantasia di bambino. Lo presi e lo tenni stretto nella mia
mano. Era leggero e morbido, sottile e forte nello stesso
tempo. Lo portai al viso e ne sentii il profumo, fresco che
sapeva di fiori o di agrumi, non saprei dire.


Superai la prima porta dove era rimasto incastrato il vestito
della ragazza, per trovarne una seconda, quasi subito.
Entrambi erano aperte e nonostante fossero grandi, almeno
per me e pesanti in legno antico e rovinato dal tempo, si
mossero con facilità come per invitarmi ad entrare.


Attraversai le due porte, vicine tra loro, in silenzio senza fare
rumore alcuno e trattenendo il fiato per timore di essere
scoperto, ma complice l’ansia che mi prese, fu come un
percorso che mi apparve oscuro e lunghissimo. Non so
cosa mi fossi immaginato in quel momento; forse che dietro
le porte ci fossero ripidissime scale, che scendevano in una
aula enorme, in penombra, che terminava in un anfiteatro
illuminato dalla tenue e tremula luce di antichi candelabri e
che trovassi un’aula gremita di insegnanti dall’aria severa
vestiti con abiti neri con dei grossi colli bianchi e dei grossi
cappelli, come avevo visto in un film anni prima e intenti a
preparare la loro lezione. Pronti a giudicarmi e a
redarguirmi, per punirmi poi con chissà quale sofisticata,
ricercata sanzione disciplinare.


La stanza invece davanti ai miei occhi mi apparve immensa
ma regolare con un ampio soffitto e ricca di particolari che
stentavo a mettere a fuoco perchè abbagliato da una forte
luce che proveniva dall’interno, in contrasto con la
penombra che stavo lasciando. Rimasi tra la porta e un
provvidenziale tavolo di legno consunto da anni di usura
dove mi acquattai. La luce che filtrava dalle enormi vetrate
a mò di lucernario creava disegni arcani nei pulviscoli della
polvere sotto il tavolo rendendo ancora più magica quella
atmosfera.


Dal mio particolare punto di osservazione vidi manichini,
enormi teste di statue classiche, lampadari di cera
dimenticati su tavoli da lavoro, scale appoggiate alle pareti e
materiali con cui chissà quali e quanti giovani studenti
avevano immaginato, progettato, plasmato e portato dalla
mente alla materia la loro immaginazione. E ancora pezzi di
cornici, vasi dalle fogge e dei materiali più strani, trucioli e
spago, ferro e legni. Sul fondo, confuso da quel gioco di luci
e ombre mi parve di scorgere una figura che armeggiava
con uno strano strumento.


Era un uomo piccolo, che indossava una specie di pesante
impermeabile di pelle e un cappello che pareva fosse
appartenuto ad un militare e degli occhiali da vecchio
aviatore o motociclista che sembravano proteggerlo un poco
da quella intensa luce che lo circondava.
Intorno a lui in fila ordinata, una serie di personaggi ancora
più strani, aspettavano il proprio turno per entrare in quella
luce per scomparire dentro di essa. La ragazza che avevo
seguito dentro quella stanza li superò tutti e tra lo stupore
generale superando la fila li anticipò scomparendo in quella
luce arcana.


Vidi allora il piccolo uomo scuotere la testa per il
disappunto e fare segno a quello strano consesso di
affrettarsi e dopo averli invitati con decisione ad entrare in
quella che mi parve ora una porta di luce verso un mondo
misterioso, si accinse a seguirli portando con sé quello
strano apparecchio.


Fu allora, dopo che tutti furono scomparsi, che vidi per un
attimo la luce fluttuare e il bagliore che apparve diminuire di
intensità e intesi che l’accesso a quel mondo si stava
richiudendo alle loro spalle, e sarebbe stato perso.
Perso a Brera, forse per sempre. Non ebbi certo nè il
tempo, nè la lucidità per meditare su quello che stavo per
fare. Strinsi nella mano destra il lembo di vestito e saltai.
(continua)